Giulio Pastore – Biografia
Giulio Pastore*
(Genova, 17 agosto 1902 – Roma, 14 ottobre 1969)
Nasce a Genova, da famiglia operaia originaria della Valsesia. Nel 1914 il padre, per un infortunio sul lavoro – la perdita di un braccio – è ridotto all’invalidità e deve tornare in Valsesia, a Varallo. Così, a 12 anni, Pastore è costretto, per vivere, a lavorare in fabbrica come attacca-fili, accanto a sua madre, alle Manifatture Lane di Borgosesia. In Valsesia opera in quel tempo – come racconta lo stesso Pastore in un libro sulla federazione giovanile cattolica novarese scritto da lui nel 1930 in collaborazione con L. Gedda – «un’eletta schiera di sacerdoti, che cominciando dal venerato prevosto di Varallo, mons. Vincenzo Brunelli (…), ostacolarono da un lato il dilagare del socialismo e dall’altro obbligarono il liberalismo massonico a rinfoderare molte delle sue subdole armi». Dal 1911 esiste in Varallo un circolo della Gioventù cattolica, il «Calderini». È in questo ambiente che Pastore fa la sua esperienza di associazionismo giovanile cattolico, diventando presidente del circolo Giosuè Borsi di Borgosesia prima e della GC della Valsesia poi.
Nel 1918, quando la CIL appena fondata cerca di darsi una sua struttura organizzativa nazionale e di dar vita alle unioni del lavoro territoriali, Pastore lascia la fabbrica per diventare organizzatore sindacale; e, dopo aver compiuto un periodo di tirocinio a Monza alla scuola di A. Grandi, assume la carica di segretario dell’Unione del Lavoro di Varallo.
Ma la sua attività prevalente fino al 1924 è quella di propagandista della GC, ormai a livello diocesano, e di direttore del periodico cattolico «Il Monte Rosa» fino al 1921. Nel 1920 organizza il primo convegno di plaga della GC, che si tiene a Borgosesia. Nel 1923, nel settembre, organizza a Varallo, «quasi a riconoscimento dello sviluppo assunto d’azione giovanile in Valsesia», il convegno della federazione diocesana.
In relazione a queste attività si verificano i suoi primi scontri con i fascisti della provincia. Nel maggio del 1923 a Novara, in occasione del congresso eucaristico, si hanno le prime violenze a danno di giovani cattolici valsesiani. La Federazione diocesana della GC cerca di evitare i motivi di attrito invitando i circoli a svolgere attività esclusivamente religiose; e nel luglio del ‘23 si realizza un compromesso provvisorio fra autorità civile e autorità religiosa. Pastore, che specialmente sulle colonne de «Il Monte Rosa» ha polemizzato vivacemente con i fascisti, non si piega al compromesso e lascia Novara.
Nel marzo del 1924 viene chiamato a Monza dalla Direzione cittadina delle opere cattoliche, come propagandista. Nel dicembre viene nominato direttore del periodico locale «Il Cittadino», che riporta la sua sede a Monza dopo oltre otto mesi di trasferimento a Milano dovuto alla distruzione della tipografia per mano di squadristi. Il giovane Pastore — scrive la redazione nel presentarlo ai lettori — «viene a noi da una graziosa cittadina, dove ha fatto le prime armi dalle colonne di un confratello di fede, per continuare qui, affiancato da fedeli amici, la buona battaglia».
La «buona battaglia» a Monza dura fino all’ottobre del 1926. Sono gli anni dell’Aventino prima, e della soppressione delle opposizioni, poi. Pastore accompagna e sostiene dalle colonne del giornale, con la sua consueta intransigenza, gli ultimi tentativi di resistenza al fascismo: congiungendo sempre le ragioni politiche alle ragioni morali e religiose. «L’ombra di Matteotti — egli scrive nel numero del 1° gennaio del 1925 — non è ancora scomparsa; intorno a questo cadavere vibra ancora di sdegno l’anima della nazione». Pastore chiama direttamente in causa il presidente del Consiglio Mussolini per le distruzioni in Brianza («la sua complicità nei fatti non può essere negata da alcuno») e invoca l’intervento del Procuratore del Re. Ma l’8 gennaio è costretto ad avvertire i lettori che per «ragioni ovvie» per l’avvenire dovrà «riferire la pura cronaca dei fatti politici» tralasciando ogni giudizio e commento personali. Alla fine di febbraio egli confida ancora, tuttavia, sulla possibilità di nuove elezioni, ed auspica che le opposizioni si presentino unite nella campagna elettorale, intorno al «motto comune libertà». I cattolici dovrebbero concordare con gli altri partiti le candidature secondo criteri di opportunità, nell’ambito di una coalizione in cui i popolari starebbero accanto ai socialisti, ferma restando la distinzione sui principi; quella distinzione che — fa notare polemicamente Pastore — non fanno i clerico-fascisti rispetto al fascismo, nonostante sia evidente «la prassi sfacciatamente panteistica di quella che è definita la dottrina fascista». Dall’Aventino, sul quale le opposizioni sono salite per ragioni morali, non si deve pertanto discendere — scrive Pastore nel giugno, a un anno di distanza dall’assassinio — finché permangono quelle ragioni. Anche per il PPI l’unica via è quella dell’intransigenza. Nel 1923 «il congresso di Torino è passato alla storia come un atto di indipendente fierezza»; al congresso di Roma del 1925 si deve andare con lo stesso impegno, perché radici delle sconfitte si ritrovano sempre in una deficienza morale. Nella battaglia intorno alla questione morale i cattolici devono essere in prima linea, contro gli scribi e i farisei, perché «il cattolicesimo è anzitutto vita vissuta».
Anche quando, nel 1926, lo spazio di libertà si riduce ancora, Pastore insiste nei suoi appelli alla coerenza fra morale e politica.
La religione cattolica, a suo parere, «non si limita a dirigere la vita privata dell’uomo, ma anche quella pubblica, ad una dottrina sociale che ogni cattolico deve sforzarsi di conoscere e fare attuare, anche a costo di sacrifici». Pastore riconosce che di fronte alla crescente pressione fascista è necessario, secondo le nuove costituzioni dell’AC, «fare delle istituzioni nostre qualche cosa come un esercito con unicità di comando» e intensificare in relazione alla nuova situazione l’impegno formativo ad alto livello: perché «gli orizzonti aperti all’AC, alla Chiesa stessa, sul terreno sociale e politico, esigono, nei militi e nei dirigenti, un possesso completo e perfetto della dottrina in rapporto a tutta la vita dell’uomo e a tutte le attività del medesimo». Ma l’impegno formativo non deve sottrarre i cattolici dall’impegno sociale. L’esperienza della persecuzione in Messico mette in guardia contro un tale errore. La lezione che Pastore trae da tale esperienza è integrale. «Mirare alla conquista dello Stato: ecco un dovere che se fino ad oggi poteva sembrare un’eresia, oggi si impone ad ogni cattolico d’azione. Intensificare l’azione religiosa, curare la formazione degli spiriti sulla base degli insegnamenti cristiani; ma dopo quest’opera che può essere di preparazione, non abbandonarsi a sperare dagli altri la realizzazione dei nostri sogni, ma buttarsi audacemente nell’agone, perché il nostro programma abbia in noi, che ne siamo i più fedeli interpreti, i suoi esecutori».
Nell’ottobre, dopo le leggi eccezionali, «Il Cittadino» deve sospendere le sue pubblicazioni. Le riprenderà il 20 dicembre con un nuovo direttore. Pastore è rientrato a Novara dove trova a fatica un posto di fattorino nel Piccolo credito novarese, e, dopo il fallimento del Piccolo credito, superato un periodo di disoccupazione, nel Banco di San Paolo, nel quale grazie alle sue capacità e alla sua cultura di autodidatta diventa prima impiegato e poi cassiere. Durante il periodo novarese, che va dal 1927 al 1935, concentra il suo impegno nella GC diocesana come membro della presidenza e propagandista, e come presidente dei Circolo San Giorgio della parrocchia di Sant’Andrea di Novara: in quella Federazione diocesana di cui, a partire dal 1929 e fino al 1933, è presidente L. Gedda.
Immediatamente, nel luglio 1927, Pastore partecipa dalle pagine de «Il Giovane Piemonte», al dibattito sulla crisi interna dei Circoli della GC, sollecitando i giovani a non accontentarsi di una formazione puramente religiosa e a impegnarsi anche nella formazione sociale. Nel marzo del 1930 non esita a bruciare con altri giovani del suo circolo sulla piazza principale di Novara libri e riviste pornografiche: quasi a dimostrare che non si può lasciare allo Stato il compito di tutelare la moralità. Dall’ottobre del 1931 al luglio del 1933 fa parte del gruppo che pubblica il quindicinale satirico «La Giraffa»: un tentativo, non sempre riuscito, di esprimere una posizione non conformista rispetto al regime.
Nel 1935, su invito di Gedda, diventato nel frattempo presidente centrale della GC, lascia il posto in banca e si trasferisce a Roma, come membro della Presidenza centrale della GC e con le funzioni di delegato tecnico centrale. In questo posto di lavoro prevalentemente tecnico e organizzativo Pastore dà un contributo determinante a fare della GC un movimento fortemente centralizzato, come era necessario per assicurare al movimento giovanile cattolico, nonostante gli accordi del ‘31 prevedessero un’organizzazione diocesana, una direzione unitaria a livello nazionale. Nello stesso tempo realizza un contatto personale, al centro e nelle diocesi periferiche, con le personalità più eminenti della AC.
Nel momento decisivo dello scontro fra il fascismo e la Chiesa, intorno al 1938 e negli anni successivi, Pastore partecipa, accanto agli ex dirigenti del PPI e in particolare a De Gasperi, al lavoro di preparazione e di formulazione di programmi, condotto nella clandestinità, che, al momento del crollo del regime, consentirà ai cattolici di assumere nella vita politica e nella vita economico-sociale nuove preminenti responsabilità.
All’indomani del 25 luglio è già al lavoro al fianco di Grandi, diventato Commissario della Confederazione fascista dei lavoratori dell’agricoltura. Dopo 1’8 settembre partecipa al lavoro di progettazione del nuovo ordinamento sindacale (talvolta discostandosi dalla linea di Gronchi sul come condurre le trattative per l’unità sindacale come risulta anche da una lettera di De Gasperi del febbraio 1944), e all’attività di resistenza, guidata dal comitato romano di liberazione, in quanto membro della direzione clandestina della DC. Il 30 aprile 1944, mentre sta preparando lo sciopero generale, cade in un agguato della polizia e, arrestato, viene chiuso nel carcere di Regina Coeli.
Al momento della liberazione gli è assegnato il compito, l’8 giugno, di dirigere l’ufficio sindacale della DC; e quando, nel settembre, l’ufficio viene sciolto e vengono costituite le ACLI, ne diventa segretario centrale, dando alle nuove associazioni, come è suo costume, un forte impianto organizzativo, a sostegno dell’azione di apostolato e della presenza della corrente sindacale cristiana nell’ambito della CGIL. Nello stesso tempo partecipa sia alla vita interna della CGIL, come membro del direttivo confederale, sia alla vita interna della DC. Nel febbraio del 1946 lascia la carica di segretario centrale delle ACLI, pur rimanendo presidente del Patronato, e fino al novembre cura la segreteria organizzativa della DC. Nelle elezioni per la Costituente del 2 giugno 1946 viene eletto deputato nel collegio Torino, Novara, Vercelli, nel quale verrà costantemente rieletto fino alla morte.
Alla morte di Grandi, dopo la breve parentesi di Rapelli, Pastore assume nel marzo del 1947 la funzione di massimo esponente della corrente sindacale cristiana, proponendosi come obiettivo, fin dal congresso che si tiene nel giugno del 1947, di rafforzare la posizione della corrente all’interno del sindacato unitario, sia sul piano organizzativo che sul piano della linea politica. Nel luglio del 1948 la rottura dell’unità sindacale, avvenuta più per forza di eventi che per un progetto lungamente meditato, gli impone di abbandonare l’obiettivo del rafforzamento della corrente per assumere un nuovo obiettivo: la creazione di un sindacato nuovo, per il quale peraltro manca, sia a lui sia agli altri esponenti del MC, una adeguata riflessione.
La strada del sindacalismo confessionale non sembra più percorribile. Né appare realistica la proposta di mantenere la situazione fluida aspettando che si costituiscano dal basso tanti sindacati di categoria che, alla fine di un lungo processo, diano origine ad una confederazione: la forma confederale non può infatti mancare in una situazione politica nella quale il sindacato è ormai al centro della vita economica e sociale. Tutto porta dunque il congresso straordinario delle ACLI, che si riunisce nel settembre, a scegliere la forma confederale che si caratterizza, rispetto all’esperienza della CGIL, per il contenuto prettamente professionale della sua azione, per il maggior peso delle federazioni di categoria rispetto alla struttura confederale, ma, soprattutto, per la sua dichiarata autonomia dai partiti nella linea sostenuta da Pastore, secondo la formula internazionale dei sindacati liberi. Pastore è nominato segretario generale della nuova confederazione che prende il nome di Libera confederazione generale dei lavoratori (LCGIL). La nuova esperienza confederale, che rappresenta all’inizio poco più di una estensione della corrente sindacale cristiana, non dura però a lungo. È Pastore stesso l’artefice dell’evoluzione, avviando un processo di fusione della corrente sindacale cristiana con altre forze sindacali che provengono dalla tradizione social-riformista e da quella repubblicana. Nel novembre del 1949 la LCGIL aderisce a livello internazionale invece che alla Confederazione internazionale dei sindacati cristiani (CISC) alla International Confederation of Free Trade Unions (ICFTU), che si costituisce allora in contrapposizione alla Federazione sindacale mondiale controllata da Mosca. Nel maggio del 1950 l’evoluzione assume la sua forma definitiva, attraverso un patto di unificazione delle forze sindacali democratiche, con la costituzione della Confederazione italiana dei sindacati dei lavoratori (CISL). Questa decisione avrà conseguenze di grande portata non solo sull’evoluzione di tutto il movimento sindacale italiano, ma anche su quella del MC. Essa apre la strada, infatti, ad una esperienza di azione e di organizzazione di laici cristiani, impegnati nella vita economica e sociale, che ritengono, senza per questo negare la propria fede religiosa e anzi sentendosi impegnati in coscienza a renderne coerente testimonianza, di scegliere una forma di presenza nel temporale caratterizzata dalla laicità e dal pluralismo ideologico, collaborando con quanti abbiano in comune alcune convinzioni essenziali sulla libertà e la dignità della persona umana, a cui «debbono ordinarsi — come si legge nell’articolo 2 dello statuto della CISL — la società e lo Stato».
Pastore, con la sua personalità, con la sua formazione, e con la sua esperienza di uomo che ha sempre collegato l’azione sindacale con una forte idea di moralità e di giustizia, è il simbolo vivente di questa nuova modalità di presenza, nonché la garanzia per il mondo cattolico che questa evoluzione, della quale non esistono precedenti nella tradizione del MC, avvenga evitando il pragmatismo agnostico e l’impoverimento degli ideali di riscatto della condizione operaia propri della concezione cristiana del sindacato.
La scelta di Pastore, anche se non apertamente contrastata, non è però probabilmente capita nelle sue indicazioni e nelle sue motivazioni dall’insieme del MC, nel quale la preferenza viene ancora data, sul piano dei principi, al sindacalismo cristiano, e si accetta la nuova formula essenzialmente come esigenza tattica, mantenendo la pretesa di esercitare una qualche forma di influenza, direttamente o attraverso le ACLI, non solo sull’orientamento ma anche sulla vita interna del sindacato.
La vita di Pastore, da quel momento, può essere studiata e capita adeguatamente solo se si ha presente la sua identificazione convinta, come persona, con la scelta di dar vita a questo modello nuovo di sindacato. Il significato cristiano dell’azione di Pastore nel sindacato va cercato, pertanto, non in questa o quella dichiarazione di principio o nel suo collocarsi in questa o quella appartenenza, e tanto meno nel suo farsi sostenitore degli interessi della Chiesa, ma nel modo con cui egli, nella sua responsabilità di laico cristiano, concepisce e realizza l’azione sindacale: e ciò attraverso la libera e responsabile contrattazione collettiva, l’esercizio ugualmente responsabile del diritto di sciopero, l’autonoma partecipazione alla formazione delle decisioni delle aziende e dei pubblici poteri che hanno riflessi sulla condizione di vita e di lavoro dei lavoratori, lo sviluppo della democrazia sindacale.
In questa fase della sua vita egli, avvalendosi per l’attività di studio e di formazione della collaborazione determinante del prof. Mario Romani, dà opera a costruire quello che egli stesso chiamava «il sindacato nuovo»: una esperienza cioè, che non ha precedenti nella storia del sindacalismo italiano e che ne ha pochi anche altrove, di sindacalismo autonomistico (benché di fatto guidato, almeno per allora, da uomini di partito) e, nello stesso tempo, pienamente consapevole della sua nuova posizione di responsabilità non solo per la difesa degli interessi dei lavoratori ma anche per gli equilibri fondamentali della vita economica e sociale e della stessa organizzazione politica.
Di questa sua azione innovatrice, che può sembrare e di fatto sembra a molti discostarsi dalla tradizione social cristiana, ma che individua invece con molto rigore un punto nuovo di equilibrio fra ispirazione cristiana ed azione autonoma dei cattolici impegnati nel temporale, si devono ricordare almeno alcune tappe fondamentali: la decisione, nell’ottobre del 1950, di opporsi alla emanazione di una legge sindacale organica che per dare efficacia di legge ai contratti collettivi di lavoro, secondo le indicazioni dell’art. 39 della Costituzione, avrebbe comportato limitazioni all’esercizio della libertà sindacale; la decisione, presa nel giugno del 1947 e maturata negli anni successivi, di far partecipare il sindacato alle responsabilità connesse alla politica economica di ricostruzione, ed, in particolare, al piano Marshall; l’orientamento, adottato nel 1953, favorevole a ridistribuire ai lavoratori i benefici derivanti dagli incrementi di produttività, attraverso un’attività contrattuale realizzata a livello di azienda ad integrazione della contrattazione nazionale; la decisione, nel 1954, di assumere come obiettivo del sindacato, in connessione al Piano Vanoni, l’incremento del reddito e dell’occupazione, fino al punto di fare della politica salariale, attraverso forme di risparmio volontario dei lavoratori, un elemento determinante della accumulazione del capitale e della politica degli investimenti; la decisione, nel 1955, di portare il sindacato dentro il luogo di lavoro, attraverso le sezioni sindacali aziendali, in alternativa alle forme di rappresentanza generale di classe esistenti, costituite sul modello delle commissioni interne storiche; e la decisione, nel 1958, di rompere apertamente alla Fiat con la politica imprenditoriale che tendeva a fare del sindacato un elemento subordinato, chiarendo così fino in fondo la portata ed il significato del «sindacato nuovo» avviato nel 1950.
Con le stesse convinzioni di fondo, Pastore partecipò attivamente alla vita politica e parlamentare, militando costantemente nei gruppi della sinistra democristiana. Nel dicembre 1947 appoggiò nel consiglio nazionale del partito la mozione Lazzati di sfiducia al segretario Piccioni (e indirettamente a De Gasperi), pur senza identificarsi con la corrente dossettiana che da quell’atto prese ufficialmente vita. Al congresso DC di Roma del novembre 1952 presentò una lista autonoma di sindacalisti, fondando la corrente di «Forze sociali» e prese nuovamente le distanze dalla politica degasperiana, denunciando «una gravissima, persistente, sfacciata volontà da parte imprenditoriale di sottrarsi ai rispetto delle leggi sociali» (lettera a De Gasperi del 28 novembre 1952, in De Gasperi scrive, I, 363-66). Nominato ministro per l’intervento pubblico straordinario del Mezzogiorno nel il governo Fanfani (1958), più volte membro de successivi gabinetti (e protagonista di clamorose dimissioni dal governo Tambroni del 1960) egli incontrò tuttavia crescenti difficoltà, sia sul piano politico come su quello personale, a mantenere la propria leadership nella sinistra sociale del partito, risultando progressivamente emarginato e deluso.
Mentre si preparava ad un nuovo progetto nel campo dell’educazione permanente dei lavoratori, riprendendo l’esperienza già fatta a metà degli anni ‘60 con l’Istituto di cultura dei lavoratori, la morte lo colse il 14 ottobre del 1969.
* Vincenzo Saba, Giulio Pastore, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia 1860-1980. II, I Protagonisti, Casale Monferrato, Marietti, 1982, p. 465-470.